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A. Mainardi Il cammino sull’acqua di madre Marija

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Ci sono due vie:
Una via calca la terraferma
Fa quel ch’è giusto e ragionevole
Misura, soppesa, prevede.
Ma l’altra via attraversa le acque.
Non puoi più misurare né prevedere.
Devi solo credere senza sosta.
Basterebbe un istante, ed ecco affondi.


«Una delle donne più straordinarie del Novecento» la definiva Nikolaj Berdjaev: pittrice, poetessa, rivoluzionaria ed esule, madre e monaca, testimone di Cristo fino alla morte nel lager di Ravensbrück, il 31 marzo 1945. Di madre (mat’) Marija (Skobcova), nata Elizaveta Pilenko l’8 dicembre 1891, si conosce soprattutto e giustamente l’impegno intellettuale ed ecclesiale nella diaspora ortodossa, l’inconsueta parabola monastica, l’aver salvato dei bambini ebrei durante l’occupazione nazista.

Eppure in mat’ Marija la vocazione religiosa e quella poetica e artistica si intrecciano quasi indissolubilmente, immagini speculari — dall’alto o dal basso — di una stessa via, quasi un cammino sull’acqua…

A Pietroburgo Liza frequenta l’ambiente inquieto dell’intelligencija del secolo d’argento, si appassiona agli ideali rivoluzionari e si sente «completamente atea», dipinge e scrive poesie (la prima raccolta Schegge scite, è del 1912). Ancora ginnasiale, fa amicizia con il grande Aleksandr Blok, che le dedica alcuni versi: «Quando stai sul mio cammino / così viva, così bella, / ma così consumata: / parli sempre di cose tristi, / pensi alla morte, / non ami nessuno / e spregi d’essere bella / … / a stento penso che tu abbia quindici anni».

Sposa lo scrittore Dimitrij Kuz’min-Karavaev (1885-1959), dipinge ed espone accanto a nomi prestigiosi (Michail Larionov, Natal’ja Gončarova, Olga Rozanova). Di quegli anni si conservano pochissime opere, tra cui una raccolta di acquarelli, ritrovati nel 1980, sospesi tra simbolismo e avanguardia: Il re David, L’interno del tempio, L’incontro tra Anna ed Elisabetta, il Pastore…

Allo scoppio della Grande guerra il primo matrimonio è già fallito. «La necessità mi ha fatto salire in alto» scrive Elizaveta nel poema Ruth (1916): «Per una volontà a me sconosciuta di nuovo scendo a valle. Come un pellegrino vado verso il sorgere del sole. Il mistero che mi ha attratto dall’altezza mi si è rivelato: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore, porta molto frutto”. Ho cessato di vedere, per sentire al tatto, per non misurare soltanto la strada con la ragione, ma per percorrerla lentamente e con amore».

Un ufficiale cosacco, Daniil Skobcov, innamoratosi di lei, la aiuta a emigrare e la sposa in seconde nozze. La morte della figlia più piccola, Anastasija (1926), segna una profonda crisi, che la porterà a separarsi consensualmente dal marito e a vestire l’abito monastico. Continua a scrivere, saggi, poesie, drammi. Percorre la Francia per assistere i più diseredati tra gli emigrati russi. Ne troviamo un’eco nella raccolta Poesie, uscita nel 1937 a Berlino. Un esemplare, ritrovato negli anni ottanta tra le carte di Daniil Skobcov, conserva nei margini i disegni autografi dell’autrice.

Ai loro piedi getto la vita
Brucia l’altrui patire.
Bevono con l’acqua la pula
E amaro è il miele del loro lavoro.
Uno sta ora morendo
Sul lettino d’ospedale.
Un altro al banco si scola
Il peso dei ricordi dell’anno.
Tristezza e oppressione senza uscita.
Lavoro, fatica e fatica.
Nessuno mostrerà sulla terra
L’ampia strada verso l’alto.
Progenie sventata, dove accorri
Dalle fabbriche, dai cantieri, e poi?
Senti, in cielo cozzano le armature
Là sono le ali e le lance e il tuono.
Non qui, sulla terra, tra noi
No, non qui è sorta la guerra del vivere.
Rifulge di fuoco dinanzi alle schiere
L’Arcistratega fiammeggiante.

«Ci sono vie solitarie, che non intersecano altre vie» scriveva mat’ Marija in quegli anni. «E ci sono strade che è come se condizionassero l’esistenza l’una dell’altra. Una di queste vie è la via della terra… E per la fatica, il sudore, la cecità e la pietà, la terra è santa». In un tempo che all’onda d’urto della rivoluzione aveva visto l’improvviso crollo della millenaria cristianità russa e che in occidente conosceva il dilagare del totalitarismo nazista, anche la fede era chiamata a vivere radicalmente l’al di qua. In questa esperienza estrema, la Parola evangelica è purificata, lascia scoprire profondità non ancora comprese in una radicale fedeltà alla terra, nella prossimità bruciante con l’uomo che ha rinnegato Dio:

Là scorrevano latte e miele
E mosto succoso nei tini.
Ma qui, caduta e volo,
Neve nei campi e fuoco nelle vene.
A me fu data una sorte beata
Nel delirio della lacera veste.
O Rus’, o Canaan poverissima,
Non un palmo lascerò di terra.
Giaccio nella cenere, e con la fronte per terra.
Cresco nella tua arida argilla.
Una manciata di brecciame, una zolla di polvere
Impastate con me in un’unica carne.

In una poesia degli ultimi anni, mat’ Marija parla di due vie: una percorre la terraferma, la via sicura di ciò che è «giusto e ragionevole», la via della morale e delle consuetudini. Ma in un tempo in cui ogni fondamento dell’umana convivenza vacilla, in cui al di sotto delle ideologie e degli ideali umani si spalancano gli abissi infernali del mistero del male all’opera nella storia, questa via non conduce in nessun luogo. Occorre percorrere un’altra via, che lo sguardo puro della poesia scorge, quando parla le parole impossibili dell’amore. Una via che «attraversa le acque», guada il mare in tempesta della storia, dove ormai la ragione umana non ha più risorse per guidare i passi, «non puoi più misurare né prevedere»: è la via della fede, dell’affidamento all’amore e niente altro.
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