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Luciano Manicardi Una comunità in cui traspare la misericordia del Padre

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Roma, 12 novembre 2016
"Annunciare il Vangelo: una comunità in cui traspare la misericordia del Padre"

relazione di Luciano Manicardi, monaco di Bose


Misericordia e comunità religiosa

Ha detto papa Francesco nel discorso (del 5 giugno 2015) ai partecipanti al capitolo generale dei sacerdoti del sacro cuore, cioè ai Dehoniani: "La misericordia è la parola-sintesi del Vangelo, possiamo dire che è il 'volto' di Cristo, quel volto che Egli ha manifestato quando andava incontro a tutti, quando guariva gli ammalati, quando sedeva a tavola con i peccatori, e soprattutto quando, inchiodato sulla croce, ha perdonato: lì noi abbiamo il volto della misericordia divina". E ancora, sempre nello stesso discorso: "La vita religiosa è una convivenza di credenti che si sentono amati da Dio e che cercano di amarlo. Proprio in questo comune impegno potete trovare la ragione più profonda della vostra sintonia spirituale. Nell'esperienza della misericordia di Dio e del suo amore troverete anche il punto di armonizzazione delle vostre comunità. Ciò comporta l'impegno di assaporare sempre più la misericordia che i confratelli vi usano e donare loro la ricchezza della vostra misericordia". Più di vent'anni prima, un predecessore di papa Francesco, Giovanni Paolo II, (nel suo discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica del 21 novembre 1992) si era espresso così: "Tutta la fecondità della vita religiosa dipende dalla qualità della vita fraterna in comune. Più ancora, il rinnovamento attuale nella Chiesa e nella vita religiosa è caratterizzato da una ricerca di comunione e di comunità. Perciò la vita religiosa sarà tanto più significativa, quanto più riuscirà a costruire comunità fraterne nelle quali si cerchi Dio e lo si ami sopra ogni cosa, e perderà invece la sua ragion d'essere ogni qual volta si dimentichi questa sua dimensione dell'amore cristiano, che è la costruzione di una piccola 'famiglia di Dio' con quelli che hanno ricevuto la stessa chiamata. Nella vita fraterna si deve riflettere 'la bontà di Dio nostro Salvatore e il suo amore per gli uomini' (Tt 3,4), quale è manifestata in Gesù Cristo". Queste parole esprimono bene la centralità della vita comune nella vita religiosa. Perché è lì che essa può divenire schola amoris, dove scuola indica che le religiose stesse non tanto insegnano al mondo, ma imparano esse stesse l'arte di amare, si esercitano reciprocamente alla misericordia, entrano progressivamente nell'empatia, apprendono la compassione. Sì, se possiamo distinguere e vedere le sfumature che differenziano queste espressioni dell'amore (compassione, empatia, agape, misericordia), tuttavia sappiamo bene dall'esperienza che esse si sovrappongono e che una persona misericordiosa, il cui cuore cioè è sensibile all'unicità preziosa e precaria dell'altro, alla miseria, a quella povertà ontologica dell'altro che è anche la sua verità, una persona insomma che incontri la beatitudine di coloro che sono misericordiosi, è una persona che conosce sempre più il moto dell'empatia, cioè la capacità di percepire ed entrare in contatto con l'esperienza soggettiva dell'altra persona, è una persona che tenta di vivere l'agape nell'opacità del quotidiano, nella trama ordinaria dei rapporti e degli impegni, è una persona che vive la compassione, il cum-pati, quel soffrire con l'altro che designa una reciprocità intima, un misterioso va e vieni, una sorta di osmosi di sentire e patire tra due persone. Il titolo di questa relazione recita: "Annunciare il Vangelo: una comunità in cui traspare la misericordia del Padre": se in una comunità si tenta di vivere ciò che ho appena elencato, l'evangelo è certamente annunciato, ed è annunciato perché è vissuto. Infatti, dice Gesù: "Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35). Anzi, sono proprio queste dimensioni che fanno di un gruppo di persone una comunità, una comunità cristiana e religiosa, e non solo un agglomerato di individui che si incrociano, ma non si incontrano. Certamente, papa Francesco sottolinea la dimensione della misericordia nell'incontro con i poveri, con i bisognosi, con gli ultimi, tuttavia io mi atterrò alla dimensione della misericordia all'interno della comunità stessa, nella sua vita interna, tralasciando l'aspetto dell'apostolato.

La misericordia, ovvero, amare nelle difficoltà e nelle situazioni problematiche

La misericordia, come attributo di Dio, indica la sproporzione e la non commensurabilità dell'azione benevola e salvifica di Dio nei confronti dell'uomo, del popolo che si trova nella sofferenza o nella tribolazione o nel peccato. Dio vede il popolo oppresso in Egitto e nella sua misericordia interviene per salvare il popolo; Dio vede il popolo peccatore ed ecco che interviene per correggere, ma soprattutto per perdonare; Dio conosce la miseria gli umani, la caducità della loro vita, la loro vulnerabilità, la fragilità della loro esistenza, e con misericordia si fa loro vicino e li consola. Insomma la misericordia designa un eccesso di amore, una misura di dono divino che eccede la capacità umana di contraccambiare, indica una disparità, una non corrispondenza tra donatore e destinatario del dono, tra amante e amato. Da questo punto di vista io intendo guardare al rapporto tra misericordia e comunità religiosa avendo in vista proprio le asimmetrie che attraversano una comunità, le disuguaglianze che la abitano, le differenze che la solcano, le problematicità e le ferite che la rendono pesante e faticosa. Che significa amare, vivere la carità, realizzare il vangelo, all'interno e di fronte a situazioni difficili, problematiche e, spesso, indesiderabili? Ma che l'esperienza ci dice che sono il pane quotidiano delle nostre comunità religiose. Prenderemo in esame dunque i rapporti asimmetrici e problematici che sono presenti in una comunità e che richiedono quei movimenti della misericordia che sono la pazienza, la sottomissione, la consolazione, e soprattutto il perdono.

Comunità, communitas

1. Conoscere la misericordia

La comunità in cui traspare la misericordia del Padre non è certo una comunità perfetta, senza macchia né ruga, senza peccato o infedeltà. Anzi. La Bibbia è la testimonianza ostinata di un popolo che ha narrato la fedeltà di Dio a un popolo che perseverava nel peccato. La Bibbia dice l'ostinata fedeltà di un popolo che riconosce e narra il proprio peccato e così conosce il Dio misericordioso e capace di perdono. Qui noi dovremmo anzitutto ricordare una cosa elementare dell'esperienza spirituale cristiana. Nel cristianesimo i santi sono quelli che sono stati resi santi perché resi giusti dalla misericordia di Dio. Chi sono i santi? Uomini e donne che hanno aderito al Signore, hanno predisposto tutto affinché la grazia del Signore potesse operare in loro, hanno fatto l'esperienza della misericordia di Dio. I santi non sono uomini e donne moralmente indefettibili, irreprensibili, non sono persone straordinarie nelle virtù, non sono persone che hanno accumulato dei meriti, ma sono quelli che hanno compreso di essere bisognosi della misericordia di Dio: l'hanno cercata, l'hanno invocata, l'hanno accolta e le hanno permesso di traboccare in loro. I santi sono persone che, conosciuta la misericordia su di loro, sono diventati soggetti di misericordia, hanno fatto misericordia ad altri. Quelli che hanno fatto esperienza su di sé della misericordia del Signore sono diventati capaci di fare misericordia agli altri: questi sono i santi. Il santo è innanzitutto chi sa cantare, con Maria: "Il Signore ha guardato alla bassezza della sua serva" (cf. Lc 1,48); è uno che, mediante l'esperienza del proprio peccato, l'esperienza consapevole del proprio peccato, ha conosciuto il Signore "Padre delle misericordie" (2Cor 1,3), il Dio misericordioso che fa grazia, amando di un amore che non deve essere meritato. Lo dobbiamo dire con certezza: noi creature facciamo esperienza di Dio solo attraverso il peccato che compiamo; non c'è un'altra strada per conoscere Dio, se non l'essere consapevoli della nostra qualità di peccatori, e il peccato in cui cadiamo è la vera occasione per fare esperienza di Dio. Chi fa vita religiosa o monastica lo sa: si può fare vita religiosa in modo inappuntabile, si può essere fedelissimi a dei riti liturgici, compierli con attenzione e con arte, si può essere molto religiosi, si può essere zelanti nell'osservanza delle regole come negli adempimenti apostolici, si può anche essere realmente giusti, come quell'uomo religioso orante nel tempio protagonista di una parabola, giusto ma confidante in se stesso (cf. Lc 18,9-14), ma non essere discepoli di Gesù, non essere stati convertiti dal suo Vangelo. Una bella testimonianza del vescovo (di Nanterre) Gérard Daucourt ci viene in aiuto: "Mi hanno parlato di una battezzata che si prostituisce. È una cristiana. Eppure ha dei comportamenti in contraddizione con il suo battesimo. Commette dei peccati. Talvolta entra in una chiesa per accendere una candela per sua madre e per suo figlio che, in seguito a false promesse, ha lasciato in America Latina. Pensa spesso a suo padre defunto e prega perché sia con Gesù nella vita eterna. Dice: 'Gesù, abbi pietà di me... Santa Maria, prega per me peccatrice, adesso e nell'ora della mia morte'. Spera di venirne fuori un giorno. È battezzata e cristiana perché crede e spera in Gesù. Riconosce di aver bisogno di Lui e vuole cambiare vita. Dà al cristianesimo il suo vero volto: Dio si rivela come Padre misericordioso a tutti coloro che si rivolgono a Lui e ama ogni essere umano".

2. Uniti da un debito

La parola "comunità", etimologicamente, è connessa al vocabolo munus, che ha due significati: da un lato è il dovere, il compito, dall'altro è il dono, ma il dono che si deve fare, non quello che si riceve. Munus è il dono da dare, è l'evento di una donazione. Sgorgata dalla misericordia di Dio manifestata in Cristo, la comunità cristiana si riconosce come debitrice di misericordia. Coloro che vivono una vita comune, vivono la legge del dono, che non significa tanto una costrizione o l'obbligo di dover donare qualcosa, quanto l'esigenza di uscire da sé per donare se stessi, per fare di se stessi e della propria vita un dono. Quando Paolo dice ai cristiani di Roma: "Non abbiate alcun debito verso nessuno, se non quello dell'amore vicendevole" (Rm 13,8), esprime in termini molto concreti quanto stiamo dicendo. Paolo si rivolge a cristiani, a persone che vivono la vita ecclesiale, la vita comune radunata dalla parola di Dio, e afferma che essi hanno un debito gli uni verso gli altri: la carità, l'amore reciproco. E qual è, ci si potrebbe chiedere, il limite della carità? Fin dove deve spingersi l'amore per l’altro? In un'ottica cristiana, la misura della carità è illustrata dalla pratica di umanità di Cristo, dalla sua vita. E la carità di Cristo ha come limite la croce. La comunità è dunque l'insieme delle persone unite non tanto da un possesso, da un "di più", ma da un "di meno", da un debito. Coloro che vivono in comune sono coloro che riconoscono il debito della carità e dell'amore verso l'altro. Questo dovrebbe caratterizzare la vita comune ponendola sotto il segno della gratuità e dell'azione di grazie. Nella vita religiosa il rendere grazie è un atto fondamentale per la vita comune stessa. L'azione di grazie personale per le sorelle con cui si vive è un pilastro della vita comune. Grazie agli altri, io posso vivere un'esperienza di comunione, di carità, di amore. Abituare l'occhio del cuore al rendimento di grazie per le concrete persone con cui si vive la vita comune, aiuta profondamente la qualità della vita fraterna. Una vita comune riuscita non dipende mai dalla somma delle ricchezze e delle forze, delle competenze e della abilità di ciascuno, ma piuttosto dalla condivisione delle debolezze e delle fragilità, della povertà e dei limiti di ognuno. Questa è una legge della vita comune: ciò che la edifica è la condivisione delle mancanze e delle povertà personali. Solo allora, infatti, ciascuno si espone agli altri nelle proprie debolezze e nella propria inermità, rendendosi amabile. Solo allora la comunità diviene luogo di esperienza di misericordia. La vita comune mi conduce a conoscere i miei limiti e le mie debolezze e negatività, e al tempo stesso, a conoscere quelle degli altri. Così essa chiede che accettazione di sé e accettazione degli altri vadano di pari passo. Assolutamente invivibile è invece una comunità di persone forti, dotate, capaci, che si sentono superiori agli altri, che non riconoscono di avere difetti o lacune. Che non sentono di avere debiti verso gli altri, ma di essere solo creditori. Persone simili non si rendono amabili e non lasciano spazio alla misericordia. La vita comune mette alla prova la carità e vive grazie alla concretissima carità. La comunità vive e respira grazie al dinamismo per cui una persona si sente donata e a sua volta sente di dovere e volere dare, di dovere e volere fare della propria soggettività un evento di relazione, di comunione e di donazione per gli altri: in questo dinamismo, le debolezze personali da ostacolo diventano un saldo fondamento della vita comune, potendo essere accolte nella fede come "debolezza in Cristo" (cf. 2Cor 13,4).

Passiamo ora a esaminare la vita comune religiosa attraverso alcune relazioni asimmetriche e situazioni di sbilanciamento che in essa si verificano. Il primo luogo è il rapporto con l'autorità, il rapporto di chi detiene l'autorità con le semplici sorelle, con il resto della comunità.

1. L'autorità e la misericordia

Che significa per chi esercita il servizio dell'autorità nella comunità religiosa il fare misericordia? Che significa essere una'autorità misericordiosa? Nella comunità chi detiene autorità deve saper governare, e dunque anche comandare, correggere, decidere. Ma un comando, che comunque deve essere sempre rispettoso verso le esigenze e le libertà dell'individuo, dovrà sempre essere: 1. conforme al vangelo, 2. non lesivo della coscienza del singolo, 3. possibile e praticabile, 4. secondo la koinonía, tendente cioè a compaginare i carismi nella comunità. Chi detiene l'autorità nella comunità sia dunque più madre che superiora. Un'autorità materna deve saper creare un clima di fiducia tra le sorelle e tra lei e le sorelle. La fiducia è la matrice della vita. La creazione di un clima di fiducia è essenziale perché possano viversi la carità e la misericordia. Dare fiducia è già fare misericordia. La misericordia va dunque anche compresa come fare fiducia. Perché la fiducia, come la misericordia, è generante. L'autorità ha molta responsabilità nel creare un clima di fiducia e di vivibilità nella comunità: se non ammette i suoi errori o le sue dimenticanze, se dice una cosa e poi rimprovera le sorelle di averla fatta, se fa venire meno la certezza della parola, se mostra evidenti parzialità e preferenze nei confronti del'una o del'altra sorella, se nutre un rapporto privilegiato con una sorella che diviene escludente nei confronti delle altre, se non motiva le sue decisioni e pretende obbedienza semplicemente perché "l'autorità sono io", questo porta a una demotivazione delle persone e a un divorzio dalla volontà e dalle motivazioni, se non ancora dalla comunità. Porta a una disaffezione e a una sfiducia, che possono essere letali per una comunità. Almeno tre sono le caratteristiche della donna incaricata di presiedere una comunità deve avere, perché possa dispiegarsi la sua maternità e essere così resa tangibile la misericordia nell'esercizio del suo ministero.

1.1 Un'autorità umana e spirituale

"Nella vita consacrata l'autorità è prima di tutto un'autorità spirituale" (Il servizio del’autorità e l’obbedienza 13). Questo significa che essa non può snaturarsi lasciandosi assorbire dagli aspetti materiali: amministrativi, burocratici, economici, organizzativi, gestionali. In questo caso prevale un modello aziendale che fa morire la comunità che risulta sottoalimentata spiritualmente, senza insegnamento spirituale, e rischia di cadere nel devozionalismo e nella pietà individualistica. Il rischio, di una conduzione che tralascia come centrale la dimensione spirituale è anche quello di considerare più i ruoli e le funzioni che le persone. Magari di finire nell'iperattività che la rende nervosa e irritabile e scontrosa facendo pagare alle sorelle le sue frustrazioni. Questa dimensione spirituale si accompagna perciò all'esercizio di un'umanità calda e dolce, che la renda sorella ben più che superiora. Autorità umana significa non schematica, non rigida, non autoritaria, non dura: la durezza è spesso la forma a cui fa ricorso chi manca di autorevolezza. Spirituale rinvia all'azione dello Spirito santo. La responsabile è chiamata a lasciar regnare lo Spirito di Dio nella comunità, a servire e favorire la sua azione. Ora, è proprio di questa autorità spirituale e umana, e perciò umile, includere il diritto al dissenso, ad avere un'opinione altra e divergente, e anche alla trasgressione delle norme disciplinari stabilite nella misura in cui queste trasgressioni sono ispirate dallo stesso Spirito santo, dalla testimonianza interiore che esso esercita, dall'illuminazione della coscienza che esso attua. In questo caso l'infedeltà materiale è in realtà una fedeltà sostanziale. L'autorità è contestata dallo stesso principio che la fonda: istituita dallo Spirito santo, essa è dallo stesso Spirito decentrata da se stessa per essere rivolta verso il suo Signore. Come lo Spirito crea unità e comunione sottraendosi, scomparendo, lasciando solo i frutti di comunione, pace, riconciliazione, così l'autorità è chiamata a porsi a servizio della comunione senza centrarsi su se stessa, anzi mirando al decentramento da sé.

1.2 Un’autorità che condivide e rende partecipi

L'autorità non è autosufficiente. Guai se si isola e pensa di poter fare tutto lei. La sussidiarietà è elemento di decisiva importanza nel governo di una congregazione, di una comunità. I responsabili dei vari settori devono poter crescere nelle loro responsabilità e chi presiede deve lasciar loro lo spazio e anche sopportare eventualmente gli sbagli che possono commettere. Colui a cui è stato delegato un compito non deve certo isolarsi dal resto della comunità, ma deve poter esercitare il suo compito e la sua responsabilità in autonomia. Procedimenti sinodali di esercizio del governo devono essere attuati. La struttura sinodale è tutti – alcuni – uno. In cui l'uno non è il vertice della piramide, ma ne è la base. Il superiore è fallibile e può sbagliare: non è per nulla automatico che ciò che egli decide sia conforme alla volontà di Dio, per cui egli ha bisogno di confronto, di consiglio, di partecipazione al governo che dunque non è una prerogativa gelosa. Nella gestione dei conflitti è importante restare liberi dagli schemi dualistici bene-male, buono-cattivo, giusto-sbagliato, che hanno il solo risultato di bloccare le persone e i gruppi nella comunità e di impedire una via di soluzione. Affrontare i conflitti è una sfida difficile e imprescindibile per l'autorità: "ogni conflitto è diverso. Ogni situazione è differente e ha bisogno di un approccio diverso. Bisogna studiare il conflitto e, dopo averlo studiato, è necessario cercare il maggior numero possibile di alternative" (Adolfo Nicolás). Chi presiede dev'essere capace di immaginazione, di fantasia, di trovare alternative alle situazioni, di prospettare soluzioni diverse e nuove, inedite, a un problema. Questo implica la capacità di chi presiede di prendere una distanza interiore dal problema, di non restarvi semplicemente invischiato emotivamente, e di immaginare, escogitare soluzioni prospettando alternative. A volte, il semplice presentare un'alternativa prima impensata ridà respiro e speranza a chi si vedeva bloccato in impasse ritenute senza uscita, a situazioni che si pensavano senza sbocchi. Trovare e prospettare un'alternativa non significa trovare immediatamente la soluzione, ma dare respiro, fare un passo verso una soluzione che potrà venire più avanti, proseguendo nel cammino. E lì il riferimento non può essere solo la legge, o il diritto canonico o la regola della comunità, della congregazione, dell'ordine, o le costituzioni, ecc. "La legge, infatti, non tiene conto di tutti i casi possibili". E prima delle legge ci sono sempre le persone. Occorre flessibilità e duttilità da parte di chi presiede. Essa è chiamata a farsi tutta a tutti, serva di tutti: "Sappia l'abate quanto difficile e ardua sia l'impresa che assume di governare anime e di prestarsi alla diversa indole di molti, trattando uno con la dolcezza, un altro invece con i rimproveri, un altro con la persuasione: secondo il carattere e l'intelligenza di ciascuno egli si conformi e si adatti a tutti, in modo che non solo non debba lamentare perdite nell'ovile affidatogli, ma anzi possa rallegrarsi dell'incremento del gregge" (è la Regola di Benedetto 2,31-32). La duttilità si oppone alla rigidità e allo schematismo che sono due grandi nemici della vita comunitaria. Solo grazie a pazienza, duttilità, intelligenza, adattabilità, disponibilità al cambiamento, la responsabile riuscirà anche a fare dei processi decisionali dei momenti comunionali e di coinvolgimento comunitario.

1.3 Un’autorità in ascolto

L'ascolto è un compito in cui chi presiede deve eccellere. Sia nell'ascolto della Parola di Dio, sia nell'ascolto delle sorelle. L'ascolto è la radice della dimensione misericordiosa dell'autorità. La dimensione materna dell'autorità si esercita anzitutto attraverso l’ascolto. La simbolica materna rinvia alla capacità di generare, di dare vita, di aver cura, di nutrire, di riconoscere, di accogliere. L'autorità della superiora è servizio alla vita concreta delle sorelle. Questo esige la capacità di essere presenti, senza essere soffocanti: il primo servizio è alla libertà della sorella, chiamata ad assumere in prima persona la sua sequela Christi e a camminare sempre più sulle sue gambe. La responsabile della comunità non è madre solo perché ha questo titolo, ma diviene madre ed è sentita tale dalle sue sorelle solo a partire dalla concretezza e dalla qualità del suo servizio quotidiano. La capacità di ascolto implica dare tempo, energie fisiche, psichiche, intellettive, affettive, alle sorelle, per aiutarle a nascere alla propria verità e alla vita in Cristo sempre più matura. Autorità viene dal verbo augere che significa far crescere. L'autorità riesce quando fa crescere le sorelle, le persone, umanamente e spiritualmente. Questo esige grande libertà interiore della responsabile, non essere toccata da gelosia, non sentirsi diminuita da una sorella che manifesta maggiori capacità, ma anzi favorirne la crescita. La capacità di ascolto della responsabile è messa alla prova quotidianamente. Se di fronte a chi viene a dirle, con grande fatica, una sofferenza, lei risponde sbrigativamente che anche lei fa fatiche analoghe e che bisogna prendere la croce e portarla, la sorella si sentirà non accolta nella sua sofferenza: lì non c'è ascolto; se di fronte a un problema espresso da una sorella la risposta si limita a essere uno "sta' tranquilla, non ti preoccupare", la sorella non si sentirà ascoltata né accolta, ma solo sbolognata e la responsabile rivela la sua paura o la sua non voglia di affrontare il problema. In quel caso meglio riconoscere: non sono in grado di affrontare il tuo problema, ti indirizzo da chi ti può dare un aiuto meglio di quanto possa fare io; se di fronte a chi viene a dire il problema che la sorella sente come drammatico e la risposta è: ci sono problemi più gravi, guardati intorno, il risultato è la colpevolizzazione della sorella, il suo non essere autorizzata a sentire ciò che sente e ad esprimerlo. Il documento della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica promulgato il giorno 11 maggio 2008 (Il servizio dell'autorità e l'obbedienza) ha ragione nel dire che "l'ascolto è uno dei ministeri principali del superiore" (n. 13) e che "chi non sa ascoltare il fratello o la sorella non sa ascoltare neppure Dio" (n. 13). L'autorità della responsabile rivela la sua maternità e dunque la sua misericordia anche entrando in reale contatto con la realtà che le sorelle vivono, con-sentendo con loro, con ciascuna singolarmente, personalmente. Chi presiede deve anche apprestare una relazione con le sorelle perché chi vive in comunità abbia davanti a sé un futuro non di disperazione, ma di relazione. La capacità di maternità si manifesta anche preparando e pensando il futuro delle persone e della comunità. L'attenzione privilegiata alle più deboli, alle malate, alle anziane è elemento importante nell'incarico di chi governa. La comunità si sente rassicurata da questo atteggiamento: non sarò abbandonata quando anche io sarò in condizioni di infermità o debolezza. Rischio da cui guardarsi in questo ambito è l'abuso di potere da parte della superiora. "Sappia (l'abate) di aver ricevuto la cura di anime malate, non un potere tirannico su anime sane" (RB 27,6). Benedetto oppone la cura, la sollecitudine, la responsabilità, alla tirannide, tyrannis, alla volontà di dominio, allo spregevole vizio di manipolare le persone e le coscienze. Sempre la Regola di Benedetto recita: "L'abate non turbi il gregge che gli è stato affidato e non prenda alcuna decisione ingiusta, come se godesse di un potere arbitrario (libera utens potestate)" (63,2). Si guardi anche dall'ingenerare infantilismo: occorre aprire gli orizzonti delle sorelle, della comunità, se si resta sempre a guardare a un palmo dal naso, il mondo si rimpicciolisce e cose minime assumono dimensioni spropositate. Il rischio è quello di affogare in un mondo lillipuziano. Di vedere suore che restano bambine, immature, senza responsabilità, incapaci di un'iniziativa perché soffocate da un maternalismo che le vuole proteggere e difendere, rendendole in verità dipendenti e impendendo loro la libertà. La responsabile che agisce così si interroghi sulla sua libertà interiore, sulle sue paure. Ci si guardi anche dal sororismo: cioè, dall'abdicare alla simbolica materna implicita nel ruolo di autorità. Vi è un'asimmetria nel rapporto che dev’essere salvaguardata. Certo, e concludo, per chi esercita l'autorità nella comunità, la misericordia è particolarmente necessaria e particolarmente difficile. Essa veglia sulla comunità, ne vede i peccati e i limiti, vorrebbe vederla maggiormente all'altezza della chiamata, al tempo stesso deve sempre fare i conti con le debolezze e fragilità di ciascuna. Cero non deve drammatizzare situazioni di peccato o di infedeltà al vangelo, ma al tempo stesso non deve mai tacere le esigenze del vangelo stesso.

2. Le sorelle difficili

Una delle difficoltà maggiori della vita religiosa e un ostacolo o almeno una messa alla prova della pratica della misericordia è costituito dalla presenza in comunità di sorelle difficili per carattere, per problemi psichici, dalla presenza di persone malate nel corpo o nella mente, di persone allettate che richiedono un'assistenza continua e assidua, di persone malate psichicamente che magari nemmeno riconoscono di essere malate e verso cui occorre un'infinita pazienza nello sforzo di sopportare chi è insopportabile. Verrebbe da dire che anche le persone anziane possono essere una difficoltà, ma ormai, visto che nell'anzianità, chi più chi meno, ci si è in tante, se non quasi tutte, occorre dire chi è in una brutta anzianità, chi è invecchiato male, quelle sorelle a cui l'anzianità non ha portato saggezza, ma solo vecchiezza e magari anche incattivimento. E poi certo, vi è il nemico. La nemica. La sorella che si erge contro di noi. Spietatamente. Ovvero colei che mostra apertamente ostilità, che sparla, che mostra apertamente antipatia e insopportazione per un'altra sorella. Sappiamo bene come la vita religiosa sia luogo in cui nascono e si consolidano antipatie che portano due sorelle a non parlarsi, a non salutarsi più, a non perdonarsi, a evitare di incontrarsi, a non stare vicine l'una all'altra all'eucaristia sennò c'è il rischio di doversi scambiare il segno della pace, e così via. Ebbene, queste figure noi dovremmo considerarle, con profondo sforzo interiore e di fede, come una grande occasione di conversione e di vangelo. Sono una grazia. Queste figure sono le grandi maestre della vita cristiana e comunitaria perché esse mettono a nudo il nostro cuore e lo svelano a noi stessi, esse svolgono una funzione sacramentale e rivelativa e ci offrono la possibilità di cambiare il nostro cuore, di vedere quanto ancora siamo distanti dall'essere evangelizzati nel profondo e dunque ci aprono la strada al cambiamento in senso evangelico, alla conversione. Come vivere come chance la difficilissima convivenza con queste presenze nemiche? Cogliendole e cercando di vederle come capaci di farci vedere il nostro cuore così com'è, proprio con la contraddizione che ci portano. Esse ci fanno vedere dimensioni insospettate di noi che non vedremmo mai se fossimo sempre in buoni rapporti con le persone che abbiamo attorno. Esse ci svelano a noi stessi denudando il nostro cuore. Il comportamento pesante e fastidioso della sorella che ci ha preso di mira può far nascere in noi una grande collera, una forte rabbia. Che fare?  Scrive Agostino: "Nella nostra dottrina si chiede all’anima credente non se va in collera, ma perché; non se è triste, ma da dove viene la sua tristezza; non se ha paura, ma qual è l'oggetto della sua paura" (De civitate Dei IX,5). La collera, infatti è rivelatrice di nostre vulnerabilità: essa ci consente di conoscerci. Dunque, la presenza di persone che ci fanno difficoltà portandoci all'ira ci fanno il servizio di svelarci nelle nostre debolezze, nei nostri punti di feribilità, nei nostri nervi scoperti, e dunque ci permettono di conoscerci anche nelle dimensioni meno nobili e di lavorare su di noi per evangelizzare le nostre zone interiori non evangelizzate.
Sì, la nemica può essere una grande maestra di vita comune. Anche Gesù, con Giuda, ha dovuto affrontare nella sua comunità, situazioni di questo tipo, dunque non si tratta di pensare che sono cose che non dovrebbero succedere in una comunità cristiana e religiosa. Dobbiamo riconoscere che anche nella vita religiosa possono avvenire casi di violenza, di suore che vengono perfino fino alle mani. Anche nelle comunità religiose alberga l'odio. Occorre cercare di fare, delle cose ingiuste che si patiscono, un'occasione per vivere il vangelo. Finché si tratta di parole o comportamenti contro di me personalmente, io posso cercare di vedere in colui che si comporta come nemico di trovare la via, la forza di non rispondere al male con il male, e di cercare di amarlo. Allora posso anche sopportare in silenzio, posso anche accettare di subire con libertà. Come Gesù che non rendeva male con male e oltraggiato, non rispondeva con oltraggi. Perché lì c'è il cuore del vangelo. Però, un conto è quando riguardano solamente me, ma quando riguardano altri, quando riguardano il terzo perché allora si deve innestare il meccanismo della giustizia. Allora c'è l'intervento, la correzione, il "no", lo stoppare chi deve essere fermato altrimenti non ha argini e esonderà come un fiume in piena facendo danni sempre più estesi, a sempre più persone.
Ma anche la malata, nel corpo o nella mente, è una grande maestra. Vivere insieme a persone malate, oggi soprattutto che molte malattie si prolungano nel tempo, si cronicizzano e diventano oltremodo pesanti, è una prova estremamente faticosa. La presenza della malata è molto rivelativa per chi vi sta accanto proprio nel suo essere ostica e difficile. Scrive Jean Vanier: "Da un certo numero di anni vivo con uomini e donne in situazioni di bisogno che portano gravi handicap e comincio a prendere coscienza delle barriere che esistono in me ... Davanti alla loro esigenza di comprensione, di amicizia, davanti alle loro paure e ai loro atteggiamenti con cui mi mettono alla prova io ho cominciato a cogliere la distanza tra la loro sete di presenza e di sostegno e la mia incapacità a rispondere. Ho toccato con mano le mie barriere e le mie paure ... Quando si cerca di accogliere il povero, di ascoltarlo e di rispondere al suo appello, allora si scoprono le nostre barriere, le nostre paure, le nostre aggressività". Con chiarezza e semplicità il malato viene colto come sacramento che può svelare e fare emergere ciò che è in noi, ciò che abita il nostro cuore.
Infine, l'anziana. A volte la vecchiaia viene vissuta con vergogna, come un disastro da nascondere agli altri, con senso di ribellione. A volte con sensi di colpa per nodi passati irrisolti, con accresciute paure circa la propria salute, con diffidenze verso gli altri che hanno l'inestimabile potere di chi è sano e giovane, con tristezze e timori. Spesso si può vedere, nelle religiose che invecchiano, la gelosia verso le più giovani. Si possono far strada anche l'invidia, il sospetto, la diffidenza, accresciuti magari dalla sordità, che è problema da non sottovalutare, dalla diminuzione delle forze, dal vedersi scavalcate e rese inutili dalle persone più giovani o meno anziane che comunque hanno ancora forze e capacità che le anziane non hanno più. Di certo, anche di fronte a un'anziana, occorre la fatica dell'ascolto e il rispetto della debolezza: capacità di limitarsi, di non invadere, di non imporre ritmi e tempi troppo pressanti, di rimettersi al quadro relazionale dell'anziana. Anche l'anziana può dunque divenire, con il suo essere sacramento di debolezza, maestra che ci rivela a noi stessi e ci insegna a praticare la pazienza, l'ascolto, la delicatezza. Ci insegna a praticare la misericordia. Ci può spingere verso la via della conversione, del cambiamento del cuore.

3. La comunicazione nella comunità

La qualità umana e cristiana di una comunità si rivela particolarmente nella qualità delle relazioni intracomunitarie e dunque nelle modalità e nelle forme della comunicazione che si instaurano.

3.1 La parola

Luogo privilegiato della comunicazione è la parola, ma la parola è luogo di misericordia o di possibile violenza, prevaricazione, arroganza. I richiami di papa Francesco all'uso sobrio e intelligente e caritatevole e rispettoso della parola ormai non si contano più. Lui parla di terrorismo delle chiacchiere. Ora, un clima di accoglienza e di carità esige una grande vigilanza nell'uso della parola in comunità. La comunità, dice un bel libro di Jean Vanier è il luogo della festa e del perdono, ma spesso diventa il luogo del mugugno e della ripicca, della tristezza e del risentimento. Il luogo del lamento e dell'accusa. Occorre guardarsi dalle parole non misericordiose e da parte di tutti. La mormorazione, le parole cioè che mormorano, che dicono male di nascosto della tal sorella che è insopportabile, o della superiora che non ci ascolta e così via. Spesso la mormorazione, parola che cerca complici contro una terza, parola che si nutre di paragoni e confronti, parola che non ha il coraggio di uscire allo scoperto e che si nutre di nascondimento, di umbratilità, è parola dell'inferiore contro il superiore. Un'espressione medievale la definisce così: murmuratio est oblocutio depressa minoris contra maiorem ob impositam sibi rei gravitatem (Rodolfo Ardente). Ma a volte è la superiora stessa che non si contiene, non ha discrezione e parla ai quattro venti dell'una o dell'altra, creando gravissimi problemi comunitari. E causando una perdita di fiducia in lei. Stiamo attente perché una comunità può essere distrutta dalle chiacchiere, dalle parole al vento, dalle parole cattive, dalle parole insincere, menzognere, doppie. Il lamento è un linguaggio che non edifica, a volte è una chiamata a complicità rivolta ad altre, a volte contribuisce a creare dei gruppetti di sorelle all'interno della comunità che si fanno portatrici di una controverità, di una lettura alternativa di ciò che avviene, ma ciò che contraddistingue negativamente queste procedure è il nascondimento, la mancanza di franchezza, di parresía. Sono parole pronunciate dietro le spalle. Mi permetto di riportare un brano della Regola monastica della mia comunità, la comunità di Bose. "Non tenere vivi dentro di te i torti subiti scaricandoti con le battute e la beffa. Questi non sono mezzi di correzione, ma indicano un male profondo, un'incapacità di comunicazione, di comprensione e di perdono. Con le battute e la beffa tu invece di correggere il male, disgreghi la comunità" (RBo 15). Lì non c'è nessuna misericordia, evidentemente. E in un passo delle Tracce spirituali, la fase redazionale che preceduto la stesura finale della Regola, si dice: "Fuggi le contese tra fratelli, rifiuta di ascoltare insinuazioni su qualcuno di loro e non dire mai di un fratello assente se non ciò che tu gli hai già detto e sei disposto a dirgli in faccia, con umiltà e chiarezza" (Tracce spirituali, La vita comune). Nella vita religiosa bisogna più che mai imparare a parlare, a disciplinare la parola, a assumere un'ascesi e una responsabilità della parola, e una capacità di comunicazione sobria ed efficace, altrimenti è la vita comune stessa che viene distrutta. Parlare è un atto etico che implica la responsabilità della persona. Perché si parla a un'altra che dev'essere rispettata, perché parlando esprimo me stesso e io devo rispettare l'umano che è in me, parlando in maniera veritiera, e non mentendo, infine la parola esige di essere rispettata per se stessa, non pervertita nei suoi significati. Responsabilità della parola è che la parola pronunciata non appartiene più a me ma a chi l'ascolta. Non dimentichiamo che è la parola che può creare legami di fraternità e di carità, oppure di diffidenza e di ostilità.

3.2 Giochi di potere nella comunicazione

Sarebbe sempre bene che noi ci chiedessimo: perché comunichiamo? Che scopo abbiamo nel comunicare? Perché i tranelli dei giochi di potere sono in agguato nel nostro rivolgerci agli altri per parlare e comunicare. Un gioco di potere è un meccanismo comunicativo in cui noi tendiamo a portare qualcuno a fare ciò che vogliamo noi. Regola d'oro dell'arte del comunicare e del vivere insieme nella comunità religiosa è la coscienza di non avere potere sull'altro. Chi ha posizione di autorità nella comunità sa di dover stare attenta e vigilare per non far divenire l'autorità un potere e uno spadroneggiare sulle persone. In una relazione asimmetrica come quella fra chi ha un'autorità, la madre o la maestra delle novizie, e una persona più giovane e in posizione oggettivamente "inferiore", occorre stare molto attenti per non far divenire questa relazione un assoggettamento, un asservimento, un condurre a sé l'altro (se-durre) invece di condurlo all'acquisizione della sua libertà (e-ducare). I plagi, gli abusi - fisici, sessuali o semplicemente spirituali e psicologici - avvengono spesso all'interno di tali relazioni asimmetriche in cui chi ha una posizione "forte" se ne serve per schiacciare chi è più debole sfruttando anche la fiducia che questi gli accorda.
Ma i giochi di potere li possono mettere in atto tutti. Spesso e volentieri è chi non ha autorità o si trova in condizione di inferiorità, che cerca vie di dominio attraverso altre strade. Un gioco di potere frequente è quello che si serve delle pressioni: facendo pressione, insistendo con smodata e ostinata insistenza io piego l'altra a fare ciò che voglio io. Oppure questo fine è ottenuto mettendo di fronte al fatto compiuto. Oppure quando il messaggio esplicito del mio comunicare (quello che io trasmetto a parole) è in contrasto con quello implicito. Posso esprimere formalmente gentilezza con le parole, mentre con il «cuore» manifesto odio, astio, insofferenza, e in verità è questo che io comunico all'altra. Altre volte il gioco di potere avviene all'interno di un vero e proprio ricatto affettivo, quando cioè l'affetto che mi lega a una persona diviene ciò su cui faccio forza per ottenere ciò che voglio. Un bell'esempio di ricatto affettivo lo troviamo nell'episodio evangelico di Marta e Maria (Lc 10,38-42). Quando Marta dice a Gesù: "Non ti sta a cuore di me? Mia sorella mi ha lasciata sola a servire. Dille dunque che venga ad aiutarmi", essa si pone nella posizione di dimenticata, di menomata affettivamente, e su questo fa leva nei confronti di Gesù. Essa si pone come vittima della sorella che l'ha lasciata sola, e chiede perentoriamente a Gesù, il terzo (e unico maschio) fra le due donne, di costringere la sorella a venire ad aiutarla. Altre volte è l'adulazione che diviene lo spazio di un gioco di potere: l'apprezzamento insincero tende a piegare l'altro a fare ciò che noi vogliamo. Altre volte il gioco di potere avviene comunicando all'altro attese e aspettative implicite: possiamo cercare di indurre qualcuno a fare ciò che vogliamo quando, nutrendo in noi un progetto implicito su di lui, senza dirgli esplicitamente "fa' questo!", noi lo conduciamo a ciò e lo persuadiamo trasmettendogli il senso che è suo dovere verso di noi fare ciò che vogliamo noi. Si potrebbe continuare a lungo, ma la casistica è pressoché infinita … Certo, un ambito comunicativo proprio della comunità religiosa in cui spesso si manifestano dei giochi di potere è il rapporto con la madre e, in particolare, il porre domande alla madre. Porre domande alla superiora, p. es. chiedere un permesso, davanti a un terzo estraneo alla comunità significa non lasciare libertà a chi deve valutare e rispondere. Chiedere mentre chi presiede è impegnato in altri lavori e attività, dunque quando non ha tempo per esaminare le implicazioni della richiesta fatta, significa compiere un'estorsione. Anche qui gli esempi si possono moltiplicare. Insomma tutto questo ci dice come sia incredibilmente frequente e quotidiano lo stravolgimento della logica dell'amore e della misericordia e di come facilmente possa avvenire che il potere dell'amore si stravolga in amore del potere.

4. Il perdono

Se tutto questo ci dice come sia facile cadere in contraddizioni nei confronti dell'amore e della carità fraterna, la misericordia ci ricorda anche però che noi siamo chiamati al perdono. La misericordia si manifesta soprattutto come perdono. Ma anche il perdono non è immediato o facile. E necessita che cerchiamo di approfondirlo. Perdonare significa donare attraverso le sofferenze e il male subito. Fare anche del male ricevuto l'occasione di un dono. Nel perdono non si tratta di attenuare la responsabilità di chi ha commesso il male: il perdono perdona ciò che non è scusabile, ciò che è ingiustificabile – il male commesso – e che tale resta. Il perdono non toglie l'irreversibilità del male subito, ma lo assume come passato e, facendo prevalere un rapporto di grazia su un rapporto di ritorsione, crea le premesse di un rinnovamento della relazione tra offensore e offeso. Il perdono pertanto si oppone alla dimenticanza (si può perdonare solo ciò che non è stato dimenticato) e suppone un lavoro della memoria. Freud afferma che se il paziente non ricorda, ripete. Il ricordo del male subito apre la via al perdono nella misura in cui elabora il senso del male subito: noi umani non siamo infatti responsabili dell'esistenza del male o del fatto di averlo subito ingiustamente (e magari nell'infanzia o comunque in situazioni di assoluta nostra impotenza a difenderci e magari da persone da cui avremmo dovuto aspettarci solo bene e amore), ma siamo responsabili di ciò che facciamo del male che abbiamo subito. Il lavoro del ricordo che sfocia nel perdono può così liberare l'offeso dalla coazione a ripetere che lo potrebbe portare a ripetere e riversare su altri il male che egli a suo tempo ha subito. Dietro all'atto con cui una persona perdona vi è già la guarigione della memoria: non si resta vittime del ricordo indurito e ostinato divenuto fissazione, non si resta in balia del risentimento, prigionieri dell'ombra lunga del male subito, ostaggi del proprio passato. Al tempo stesso il perdono implica un "lasciar andare", uno spezzare non certo il ricordo, ma il debito contratto da chi ha commesso il male. L'atto del perdono si mostra così capace di guarire non solo l'offensore, ma anche l'offeso: "il perdono è l'unica reazione che non si limita a reagire, ma che agisce nuovamente e inaspettatamente, non condizionato da un atto che l'ha provocato, e che quindi libera dalle sue conseguenze sia colui che perdona sia colui che è perdonato" (Hannah Arendt). Certo, il cammino del perdono è lungo e faticoso. Possiamo seguirne le tappe psicologiche e spirituali all'interno di un cammino individuale.

1. Per non darla vinta al male che abbiamo subito e che potrebbe continuare a legarci a sé impedendoci di proiettarci nel futuro, occorre anzitutto, come primo passo, rinunciare alla volontà di vendicarsi, di compiere ritorsioni contro l'offensore. Cedere a questa tentazione equivarrebbe a entrare nella spirale del male da cui si vuole uscire. Equivarrebbe a rinunciare per sempre a riconciliarsi. La vendetta, la ritorsione, è una ribellione contro il tempo e uno stravolgimento dell'ordine del tempo. La vendetta non accetta che il passato sia ciò che è, ovvero passato. La vendetta rende il passato sempre presente, sempre attuale, immediatamente presente e bruciante. Così la vendetta instaura un nuovo ordine del tempo, tutto centrato sul passato, ordine in verità regressivo, in quanto blocca il tempo a un momento preciso del passato. La vendetta è tutta bloccata sul passato, mentre il perdono apre il futuro. Il perdono accetta il male avvenuto come passato.

2. Quindi occorre riconoscere che si soffre per il male subito, riconoscere la propria ferita e la propria povertà. Ovvero si tratta di riconoscere che il male subito ci ha tolto quell'integrità che avremmo potuto avere e ci ha resi diversi, più vulnerabili perché vulnerati, più poveri perché abbiamo perso irrimediabilmente qualcosa. Il male subito ha realmente ucciso una parte di noi, una possibilità di vita che avremmo avuto se non fosse successo ciò che è successo.

3. Essenziale nel cammino di guarigione dal male subito è allora il poter condividere con qualcuno la propria sofferenza. Raccontare la propria sofferenza a chi sa ascoltare con amore e partecipazione significa essere liberati da quella penosa sensazione di assoluta solitudine che chi ha subito il male nutre in sé: egli infatti vede che il peso della propria sofferenza è condiviso da un altro. Può iniziare così un processo di riconciliazione con l'immagine dell’altro che non è sequestrata unilateralmente dall'immagine negativa e odiosa dell'offensore. Ora, abbiamo accanto anche un viso amico e accogliente.

4. Occorre poi dare il nome a ciò che si è perso con il male subito: solo così si può farne il lutto e assumerne la perdita. Vi sono infatti dei mali subiti che noi rimuoviamo impedendoci di guardarli in faccia e di accettarli. Ma così ne restiamo succubi. È anche importante, in questo itinerario, da un lato, accettare il fatto che noi vorremmo ripagare l'offensore con la sua stessa moneta e, dall'altro, dare alla collera il permesso di esistere in noi. Ed è importante poterla esprimere, tale collera. Del resto, perdonare non è naturale, a noi è molto più facile la ritorsione, la ripicca. L'energia vitale alla base della collera è espressione di un grido che invoca giustizia.

5. Ulteriore tappa è quella del necessario perdono a se stessi. Spesso il male subito, soprattutto se da persone amate e vicine, produce in noi sensi di colpa che rischiano di paralizzarci e di schiavizzarci: non ci si perdona di avere iniziato una relazione che si è rivelata un inferno, di essersi messi in situazioni che si sono rivelate a cielo chiuso, di avere pazientato troppo a lungo in situazioni difficili fino a subirle supinamente. Un giusto e sano amore di sé richiede che si sappia perdonare a se stessi. Se non ci si riconcilia con sé, sarà difficile farlo con l'altro.

6. Allora si potrà anche comprendere il proprio offensore, comprendere – sia chiaro! – non nel senso di scusare, ma di guardarlo come un essere umano e un figlio di Dio: allora si aprirà la strada al perdono come atto in cui in cui ritrovo colui che è già mio fratello, mia sorella, ma che il male ha allontanato da me.

7. Tappa ulteriore sarà di trovare un senso al male ricevuto: se "i fatti passati sono incancellabili, il senso di ciò che è avvenuto, sia che l'abbiamo fatto, sia che l'abbiamo subito, non è fissato una volta per tutte" (Paul Ricoeur). Per il cristiano questa tappa innesta il perdono nella dinamica pasquale. Nel perdono il male non ha l'ultima parola: la morte non vince sulla vita e la riconciliazione può sostituirsi alla fine della relazione.

8. Ma poi, in questo cammino, in ambito cristiano è fondamentale riscoprirsi perdonati noi stessi, perdonati da Dio in Cristo, e questo farà sì che l'atto di perdono che si compirà non sarà tanto (o soltanto) un atto di volontà, ma l'apertura al dono di grazia del Signore. L'apertura alla sua misericordia.

9. Il perdono poi, una volta accordato, può riaprire la relazione e allora può avvenire la riconciliazione. Può. Non è detto che avvenga: il perdono può sempre essere rifiutato. Ma una volta accordato (con quella forza performativa che ha l'espressione "io ti perdono") non sappiamo come esso agirà nel cuore e nella mente dell'offensore che ormai è il perdonato.

10. E qui noi cogliamo un aspetto del perdono che lo assimila alla paradossale potenza della croce. Il perdono è onnipotente, nel senso che tutto può essere perdonato ("può", non "deve": la grandezza del perdono consiste nella libertà con cui è accordato), al tempo stesso è infinitamente debole, in quanto nulla assicura che esso cambierà il cuore di colui che ha fatto il male né che costui cesserà di fare il male. In questo senso il perdono cristiano può essere compreso veramente solo alla luce dell'evento pasquale, dello scandalo e del paradosso della croce. Anche sulla croce la potenza di Dio si manifesta nella debolezza estrema del Figlio. Il Cristo crocifisso è colui che dalla croce offre il perdono a chi non lo chiede, vivendo l'unilateralità di un amore asimmetrico che è l’unica via per aprire a tutti la via della salvezza. L'unilateralità della misericordia. Riflesso dell'evento pasquale, il perdono cristiano si colloca anzitutto sul piano escatologico: dove c’è perdono, là c’è lo Spirito di Dio, là c’è Dio che regna, là il Cristo si rende presente.

Conclusione

Può darsi che il mio itinerario abbia un po' stupito alcune di voi. Forse ho mostrato più situazioni di distanza dalla misericordia o di contraddizione alla misericordia, e anche parlando della misericordia ne ho fatto vedere la fatica, il caro prezzo, la difficoltà. Ma ho preferito battere vie inedite sul terreno della misericordia, cercando di tenermi lontano da retoriche e ripetitività che a mio parere non aiutano la vita religiosa che, nel difficilissimo momento che sta vivendo, momento forse cruciale, ha bisogno di lucidità e spietatezza. Spero che quanto ho detto possa esservi di una qualche utilità. Grazie.
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