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Manicardi - 21 luglio 2013 XVI Tempo Ordinario

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 Fonte: monasterodibose
domenica 21 luglio 2013
Anno C
Gen 18,1-10a; Sal 14; Col 1,24-28; Lc 10,38-42


Il ministero e il mistero dell’ospitalità: questo il tema su cui prima lettura e vangelo orientano la riflessione. Ministero in quanto servizio, diaconia verso il pellegrino, il senza casa, il bisognoso; mistero perché, come appare dalla prima lettura, l’accoglienza dello straniero diviene theoxenía, accoglienza di Dio stesso (cf. Eb 13,2).
Accogliere lo straniero significa aprirsi alla rivelazione di cui egli è portatore. Ospitare è creare uno spazio per l’altro e dare del tempo all’altro. È condividere la propria casa e il proprio nutrimento. Più in profondità, ospitare significa fare di sé uno spazio per l’altro attraverso l’ascolto. Maria che ascolta la parola di Gesù è immagine di un’ospitalità che non si limita ad accogliere nelle mura di una casa, ma che fa della persona stessa una dimora per l’altro.

La tradizione cristiana interpreta il passo di Gen 18,1-15 in senso trinitario: la raffigurazione iconografica di questa scena (la philoxenía, “l’ospitalità”), sottolinea il farsi ospite di Dio che viene accolto da Abramo, ma anche l’ospitalità che Dio offre all’uomo in seno alla propria vita divina. La vita intratrinitaria è movimento di ospitalità reciproca: l’uno è riconosciuto e accolto dall’altro. E questo è vero del credente che si sa accolto da Dio in Cristo: “accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo accolse voi” (Rm 15,7). Una cultura dell’ospitalità è oggi un’urgenza profetica che contesta le logiche del “mio” e del “tuo” che creano diffidenze e fanno dell’altro un nemico, un hostis, invece che un ospite, un hospes. Colui che mi ospita mi consente di accogliermi con la sua accoglienza. Mi dà vita. Una vita che non è estranea alla divina ospitalità che attraversa i rapporti tra le persone della Trinità.

La tensione tra Marta e Maria non è un semplice litigio famigliare, ma riveste una valenza ecclesiale, come appare dal testo di At 6,1 ss., che parla del malcontento sorto nella chiesa di Gerusalemme tra due componenti della comunità: gli ellenisti si lamentano con gli ebrei perché le loro vedove erano trascurate al momento della distribuzione per i poveri. Poiché amministrazione dei beni e organizzazione dei soccorsi spettavano agli apostoli (che non necessariamente erano buoni amministratori), la soluzione della questione fu trovata assegnando una priorità al servizio della Parola, riservato agli apostoli, e affidando il servizio delle mense ai “sette”, istituiti per l’occasione: infatti, “non è giusto che noi trascuriamo la Parola di Dio per il servizio delle mense” (At 6,2).

Dunque, nessun aut-aut tra servizio e ascolto della Parola, nessuna lettura del nostro testo che insinui una dicotomia tra i due atteggiamenti di Marta e di Maria o vi veda la figura di due tipi di vita opposti (la vita attiva e la vita contemplativa). Entrambi gli atteggiamenti sono essenziali alla configurazione di una autentica e piena ospitalità e alla vocazione cristiana ad amare Dio e il prossimo. Il problema riguarda il modo del servizio. C’è per Marta, come sempre nella chiesa, la possibilità di un servizio che diventa totalizzante, che distrae dall’essenziale (v. 40), che chiude all’ascolto della Parola e se ne distacca. C’è la possibilità di un servire che diventa cieco perché non vede altro che se stesso e pretende che tutto ruoti attorno a sé; c’è la possibilità di una volenterosa e generosa attività per gli altri che diviene però cattiva e pronta all’accusa: “Mi ha lasciata sola a servire. Dille che mi aiuti!” (v. 40); c’è la possibilità di un servire che diviene un far rumore, un vuoto agitarsi (v. 41), una sorta di militanza incosciente.

Non basta servire, occorre essere servi: Maria, stando ai piedi di Gesù, si lascia plasmare dalla sua parola, divenendo sua serva, come l’altra Maria, la madre di Gesù, che disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola” (Lc 1,38). Con l’ascolto, noi lasciamo che Gesù sia il Signore, altrimenti, con l’attivismo frenetico, finiamo col sentirci protagonisti e divenire noi i signori e padroni: Marta, in aramaico, significa “signora”. E vorrebbe disporre anche di Gesù.

LUCIANO MANICARDI
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