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XXVI domenica del t. O. (Luciano Manicardi)

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 25 settembre 2011
Anno A
Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32
Prima lettura e vangelo propongono un messaggio sul pentimento. L’uomo ingiusto può desistere dalla sua ingiustizia e agire con rettitudine (Ezechiele); il figlio che in un primo tempo si è rifiutato di andare a lavorare nella vigna del padre, dopo decide di andarvi (vangelo).
L’unità delle due letture può anche essere espressa con le categorie della conversione e della responsabilità
Il pentimento è attestazione di libertà. Anche il malvagio può cambiare. Questa possibilità di conversione dice che il peccato non è una potenza metafisica che schiaccia l’uomo e che ha su di lui l’ultima parola. Nel pentimento l’uomo ritrova la retta via e “torna” a se stesso e a Dio allo stesso tempo.
Atto di libertà, il pentimento è anche atto di liberazione. Il malvagio che cambia condotta “fa vivere se stesso” (Ez 18,27), dà vita alla sua esistenza, mostrando di non essere schiavo dei precedenti comportamenti.
Che cosa porta il malvagio a cambiare condotta? Com’è possibile evocare il pentimento, questo evento in cui è in gioco il mistero della persona e la coscienza della contraddizione tra sé e sé che conduce al dolore e alla lacerazione interiori? Ezechiele evoca il cammino interiore che conduce al pentimento con le parole: “ha visto” (Ez 18,28, letteralmente; Vulgata: considerans). Che cosa ha visto? In Ez 18,14 si parla del “vedere i peccati del padre” da parte del figlio, che pure non fa della visione dei peccati paterni un alibi per il proprio peccare, anzi, non si lascia generare al peccato dal padre peccatore. Quella visione indica allora la presa di coscienza dei propri peccati, è la dolorosa visione di sé nella non-unificazione, nella divisione profonda. Nel pentimento noi vediamo noi stessi nella contraddizione con noi stessi. E sappiamo di poterci rivolgere a Dio proprio in quella condizione di chi ha il cuore contrito.

Nell’odierna parabola evangelica (cf. Mt 21,28-31), il figlio che ha risposto “no” all’invito del padre e poi, “pentitosi”, “avendo provato rimorso”, ha fatto la volontà del padre, rivela che il credere passa a volte anche attraverso un ricredersi. L’obbedienza alla parola e alla volontà di Dio passa a volte attraverso uno smentire la propria parola e la propria volontà. La fede non ci chiede di non sbagliare e di non peccare, ma di riconoscere l’errore e di confessare il peccato.

In quel “ricredersi” c’è il dialogo interiore, c’è la presa di coscienza della realtà, c’è l’audacia di guardare in faccia se stessi, preliminare essenziale per l’agire responsabile. Insomma,  c’è l’inizio del movimento verso la responsabilità, della decisione di passare dall’irresponsabilità alla responsabilità. In questo senso, lungi dall’essere un segno di debolezza, il pentimento è segno di coraggio e di forza. Per quanto sia raro e impopolare, anche nella chiesa, il gesto di chi riconosce di aver sbagliato, di chi ammette di aver assunto posizioni che si sono rivelate poco conformi al Vangelo e muta la propria posizione cercando di essere più fedele al Vangelo, è segno di grandezza umana e spirituale.
Nel cristianesimo il pentimento è la via maestra per accedere alla volontà di Dio. “Noi cristiani abbiamo il privilegio di disporre di un metodo altro, rispetto alla mondanità, per avvicinarci alla verità: il pentimento” (Christos Yannaras).
I due figli della parabola sono entrambi in contraddizione tra il dire e il fare. Ma con una differenza essenziale. Il figlio che dice “no” si espone a un conflitto con il padre, con una persona esterna a lui, e questo lo conduce a prendere coscienza del suo conflitto interiore e a mutare opinione. Cosa che non avviene in chi risponde “sì” e che compiace l’altro, si adagia sull’altro, non si espone conflittualmente all’altro e può evitare di guardare alla tentazione della disobbedienza che abita pure in lui. Per Matteo è evidente che coloro che vivono nel “sì” sono i religiosi (sacerdoti e anziani del popolo: Mt 21,23) che possono non sentirsi bisognosi di conversione perché già “a posto”, a differenza di coloro che invece vivono nel “no”, pubblicani e prostitute, e che possono fare spazio al Vangelo ed entrare nel Regno.
LUCIANO MANICARDI
Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero
Fonte: monasterodibose
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