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XIV domenica del T.O. (Luciano Manicardi)

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Zc 9,9-10; Sal 144; Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30
La prima lettura presenta una figura messianica connotata dalla ‘anawah, che è piccolezza e umiltà. Il re di cui parla Zaccaria è un curvato, un obbediente; secondo la versione greca dei LXX è un mite, come Gesù nel testo evangelico. E tanto nel re di Zaccaria quanto nel Messia Gesù, la connotazione di umiltà e mitezza non si esaurisce sul piano morale, ma è elemento rivelativo dell’essere e dell’agire di Dio. Matteo presenta Gesù come figura di rivelazione e di iniziazione alla rivelazione: mentre, con la sua umiltà, rivela l’umiltà di Dio, Gesù si propone anche comefonte di umiltà per i suoi discepoli.

Nel testo evangelico, il versetto 25 inizia affermando che Gesù, “rispondendo” o “prendendo la parola” disse… Gesù reagisce con la preghiera (“Ti benedico, Padre”) a quanto narrato precedentemente: nel capitolo undicesimo emerge la constatazione dello scarso interesse suscitato dalla persona, dalla predicazione e dalle opere di Gesù (cf. Mt 11,1-24). Gesù integra nella preghiera l’insuccesso, mette tutto davanti al Padre e conferma il suo “sì”, il suo “amen”, la sua decisione irrevocabile di adesione a Lui. Il suo “sì” al Padre non è condizionato dal successo della sua missione, ma è un’adesione radicale che anche situazioni sfavorevoli o contraddittorie non intaccano.
La preghiera di Gesù ringrazia il Padre non tanto per l’azione di nascondimento nei confronti di alcuni, quanto per l’azione di rivelazione nei confronti di altri. L’adesione di alcuni, definiti piccoli e semplici, che, credendo alla parola e alle opere compiute da Gesù, hanno colto in lui la rivelazione del Padre, diviene svelamento e giudizio del cuore di altri, la cui sapienza intellettuale e dotta si rivela inconsistente davanti alla semplicità dei piccoli: “Grande è la misericordia di Dio: egli rivela i suoi segreti agli umili” (Sir 3,20 secondo il testo ebraico).
Le parole di Gesù nei vv. 28-29 abbozzano un vero e proprio itinerario di sequela del discepolo. Abbiamo anzitutto la chiamata: “Venite a me”; quindi la necessaria rinuncia alla volontà propria per obbedire alla volontà del Signore (“prendete il mio giogo”). Per “volontà propria” non si intende la libera determinazione dell’uomo, ma la sua volontà egocentrica, autoreferenziale, “carnale”. Quindi c’è l’attitudine del discepolo, l’obbedienza del discepolo al suo maestro e Signore (“Imparate da me”) e infine il riposo, la pienezza di vita trovata nel Signore (“troverete riposo per le vostre vite”).
Il “giogo” di Gesù non designa dettami religiosi o comandi da eseguire, ma una relazione, un legame, onorando così l’etimologia della parola (l’indoeuropeo yug, cf. anche il sanscrito yoga) che designa l’azione di “riunire”, “mettere insieme”. Il giogo di Gesù leggero e soave è in continuità con il comando biblico di amare e con l’idea che colui che ama fa con gioia la volontà dell’amato. Anche l’atto di comandare l’amore, assurdo se posto in bocca a un terzo, è pienamente sensato se posto in bocca all’amante. L’amante può dire “Amami!”, l’amante può chiedere amore.
Gesù promette riposo a chi assume il suo giogo (cf. Mt 11,29). Un’esistenza credente che sia perennemente stressata dagli impegni pastorali e si configuri come frenetica attività che non conosce sosta e riposo, dimentica quell’affidamento a Cristo che è fonte di riposo nella fatica e di consolazione nelle contraddizioni. E che plasma il volto del credente non a immagine e somiglianza di manager iperattivi e sempre nervosi, ma del Cristo mite e umile, paziente e benevolo.
Al tempo stesso, un giogo resta un giogo e nulla toglie la fatica di portarlo. Amare è un lavoro impegnativo e lasequela Christi comporta sforzo e fatica. Di fronte alla tentazione diffusa di eliminare dal vivere ciò che è faticoso e comporta sofferenza in nome dell’idolatria del “tutto, subito e senza sforzo”, occorre ribadire che non si danno grandi realizzazioni umane e spirituali senza fatica, dedizione, sacrificio. Né possiamo dimenticare che il giogo dell’obbedienza portato da Gesù durante tutta la sua vita è divenuto, alla fine della sua vita, un portare la croce.
LUCIANO MANICARDI
                                                                             Comunità di Bose
Eucaristia e Parola 
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