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Domenica delle Palme e della Passione del Signore (L.Manicardi)

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Processione
Mt 21,1-11
L’ingresso di Gesù in Gerusalemme è posto da Matteo sotto il segno del compimento della parola profetica (cf. Mt 21,4-5). La citazione di Zc 9,9 pone Gesù sulla scia del re “giusto, salvato e umile” (secondo il testo ebraico) di cui parla il testo profetico. Ma è significativo che l’incipit del passo di Zaccaria, che invitava alla gioia Gerusalemme (“Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme”), sia sostituito da Matteo con una citazione di Is 62,11: “Dite alla figlia di Sion” (Mt 21,5a). In questo modo l’ingresso di Gesù nella città diviene una parola rivolta a Sion, un annuncio che la interpella, ma a cui la città stessa non risponderà con la gioia, bensì con il turbamento e la diffidenza: “Tutta la città fu agitata, dicendo: ‘Chi è costui?’” (Mt 21,10). Gli eventi della vita e della storia, colti alla luce della Scrittura, diventano una parola che chiede un discernimento al credente.

Matteo cita l’oracolo di Zaccaria mantenendo solamente l’attributo della mitezza del re che entra nella città santa. La mitezza del “Messia” Gesù (cf. Mt 11,29) consiste nella rinuncia alle prerogative regali, all’uso della forza, al potere pressoché illimitato, per scegliere consapevolmente la via dell’inermità, della non-violenza, del rispetto, dell’agire pacifico. Se questo re è “debole”, lo è grazie a una “grande forza” che ha presieduto alla sua precisa scelta: la scelta di rinunciare alla forza e al potere.
La precisa direzione che Gesù mantiene e percorre con risolutezza e decisione nella sua esistenza e nella sua vocazione, è espressa nel testo evangelico dalla signoria sugli eventi che egli dimostra inviando due discepoli davanti a sé, dando loro istruzioni precise e prevedendo ciò che avverrà (cf. Mt 21,1-3). Ma Gesù prevede eventi banali, che non sembrano rivestire valore spirituale o storico. Eppure sembra che Gesù si preoccupi che le cose vadano proprio così e che egli possa salire su un mite asinello, che poi restituirà ai legittimi proprietari, per narrare, con il suo incedere seduto su quella cavalcatura, il cammino di Dio incontro all’uomo.
La reazione di misconoscimento e incomprensione della città nei confronti di questo re che col suo agire smentisce le caratteristiche regali è significativa di una possibilità permanente per il cristiano e per la chiesa: sentire come estraneo a sé proprio il Cristo rivelato dai vangeli, il Cristo povero, il Cristo mite, il Cristo che non si impone. Insomma, il Cristo che sceglie come cavalcatura non il cavallo, ma l’asino. Quel “Chi è costui?” (v. 10) della città incredula, deve divenire per il cristiano e per la chiesa la controdomanda: “Chi sono io?”, “Quale immagine del Signore guida la mia prassi cristiana?”. È alla luce dellamitezza di quel Messia, della povertà di quel re, dell’inermità diquel Veniente che i cristiani e le chiese sono chiamate a verificare la loro prassi. Il paradosso ha funzione dirivelazione, ma può divenire motivo di inciampo.
Matteo sottolinea, più di tutti gli altri evangelisti, lapresenza di una folla numerosa all’ingresso di Gesù in Gerusalemme: “folla numerosissima” (v. 8); “le folle” (vv. 9.11). Gran quantità di gente che precede e che segue, partecipazione popolare, confessioni di fede, invocazioni liturgiche, gesti di omaggio per colui che sta entrando in Gerusalemme: sembrano le scene di un evento coronato da successo. Ma con tutto questo stride la presenza silente di Gesù. Emerge una domanda: le folle capiscono ciò che avviene? Capiscono ciò che è veramente essenziale capire? Capiscono Gesù e il suo agire paradossale? La scena in cui di nuovo entra in scena una grande folla tumultuante che chiede a Pilato di rilasciare Barabba e di condannare Gesù (cf. Mt 27,20-24), suggerisce una risposta negativa. Da sempre la fede richiede qualità (cioè profondità, interiorità, serietà, libertà, coraggio, coerenza), non quantità: il problema è il terreno buono, non tutto il terreno o ogni terreno; perché “dove due o tre sono riuniti nel nome del Signore, egli è in mezzo a loro” (cf. Mt 18,20) e perché “non di tutti è la fede” (2Ts 3,2).
Celebrazione eucaristica

Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mt 26,14-27,66
L’obbedienza a Dio consente al Servo (I lettura) e a Gesù (vangelo e II lettura) di sostenere la dolorosasottomissione agli uomini e alla loro violenza. La fede del servo Gesù appare così fedeltà radicale a Dio e solidarietà con gli uomini che riscatta il male con il bene.
Il racconto di Matteo è anzitutto cristologico: Gesù è al centro della narrazione come figura ieratica che domina gli eventi con autorevolezza di Signore. Si preannuncia latheologia gloriae del racconto giovanneo. Il Cristo della passione di Matteo è più simile al Cristo maestoso dei mosaici bizantini che al Gesù kenotico della narrazione di Marco. Egli domina gli eventi: lo mostra l’introduzione all’intero racconto (il “titolo” della passione matteana: cf. Mt 26,1-2). Gesù sa ciò cui va incontro e lo dice: alla luce di questa conoscenza vengono ridimensionati gli sforzi di Giuda e i complotti dei suoi avversari per arrestarlo. In verità, ciò che nella passione si compie è il disegno di Dio manifestato nelle Scritture: la corrispondenza tra particolari anche banali e testi scritturistici diviene per Matteo occasione di mostrare che la passione ha un fondamento metastorico, è il compimento drammatico della storia di Dio con l’umanità. L’autorevolezza incomparabile di Gesù è dovuta alla sua conoscenza e accettazione della volontà divina, in altre parole, alla sua obbedienza alle Scritture (cf. l’annotazione solo matteana di 26,53-54). Sempre attento al compimento delle Scritture, Matteo lo è ancor più nel racconto culminante del vangelo (cf. le inserzioni matteane di 26,15; 27,9-10; 27,43). La signoria che Gesù mostra (in particolare con le con cui interviene per dare il senso degli eventi, per ammonire e correggere: cf. 26,1-2.52-54) si accompagna alla sua obbedienza: egli è il Servo del Signore (cf. 26,28 che riprende Is 53,12), il Giusto (27,19), cioè colui che non persegue la propria volontà, ma compie quella del Padre. Gesù è il Figlio di Dio (27,54), espressione che non indica un’identità di natura, ma una totale comunione di volere e di agire.
La dimensione ecclesiale della passione di Matteo traspare da una presentazione dei fatti illuminati dalla fede nel Risorto: questa passione è “un racconto destinato a un’assemblea di credenti” (Xavier Léon-Dufour). La comunità a cui è rivolto il vangelo di Matteo, bisognosa di essere rafforzata nella fede e incoraggiata nelle ostilità, appare, nella sua povertà e piccolezza, destinataria di quel Regno di Dio (cf. 21,43) che è un tema di fondo del primo vangelo. Comunità ormai aperta ai non ebrei, essa vede nell’intervento divino (in sogno) alla moglie di Pilato, una pagana, un’antecedente dell’apertura universalistica che connoterà la comunità cristiana. La passione di Gesù è anche giudizio su Israele, soprattutto sui suoi capi religiosi, i sacerdoti e gli anziani (cf. 27,20): l’espressione in bocca a tutto il popolo e presente solo in Matteo, “il suo sangue (sia) su di noi e sui nostri figli” (cf. 27,25), non è formula di auto-maledizione, ma solo di assunzione di responsabilità giuridica, e nel contesto del racconto, è quanto desiderato da Pilato che si è deresponsabilizzato nei confronti del destino di Gesù (cf. 27,24). L’espressione “sui nostri figli” è un’amplificazione retorica che non può per nulla significare una maledizione che si deve perpetuare nella storia sul popolo d’Israele: Matteo non è tanto interessato a individuare chi sia più colpevole di fronte alla morte di Gesù, ma a mostrare che Gesù è il solo Giusto.
Infine, la morte in croce di Gesù è narrata da Matteo in maniera teologica, non cronachistica: i segni teofanici che la accompagnano (cf. 27,51-53: terremoto, aprirsi dei sepolcri, resurrezione dei santi morti, loro ingresso nella città santa, ecc.) anticipano ciò che avverrà alla fine del mondo. Così Matteo dice che la morte di Gesù costituisce l’evento culminante e decisivo della storia: è già il compimento della storia. Questo testo, solamente matteano, parla della resurrezione di Gesù al momento stesso della sua morte (cf. 27,53), e mostra che la narrazione della passione èrivelazione di un mistero, il mistero della storia di salvezza.
LUCIANO MANICARDI
Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
© 2010 Vita e Pensiero


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