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IV domenica del tempo Ordinario domenica 30 gennaio 2011 (Luciano Manicardi)

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Sof 2,3; 3,12-13; Sal 145; 1Cor 1,26-31; Mt 5,1-12 

La predilezione di Dio è per i poveri e gli umili (I lettura), per i poveri in spirito (vangelo). La comunità cristiana di Corinto – dice la II lettura, che pur proseguendo la lectio semicontinua della Prima lettera ai Corinti, rientra in qualche modo nel messaggio unitario delle altre due letture – è formata da persone irrilevanti dal punto di vista sociale ed economico: Dio infatti sceglie ciò che è debole, ignobile e disprezzato per confondere le grandezze mondane.
La parola profetica, che trasmette lo sguardo di Dio sull’uomo, svela che l’autentico popolo di Dio è un resto, un resto formato da chi è giusto, fedele, mite, non orgogliosamente autosufficiente, ma cosciente della sua dipendenza da Dio e del suo status di “cercatore” di Dio e della sua giustizia (I lettura); lo sguardo di Gesù sulle folle svela che il vero discepolo è designato non da un’appartenenza esteriore, ma da una realtà intima fatta di mitezza, purezza di cuore, povertà in spirito, misericordia (vangelo).
Entrare nello spirito delle beatitudini significa entrare nello sguardo di Dio sulla realtà umana e scoprire che, in Cristo, anche situazioni di afflizione o persecuzione possono essere vissute come beatitudine: la beatitudine di chi sa di aver veramente qualcosa in comune con Gesù, il beato per eccellenza perché mite, misericordioso, povero in spirito. La beatitudine offerta è la gioia intima della comunione con il Signore sperimentata in situazioni concrete in cui anche Gesù si è trovato e, soprattutto, che ha vissuto come occasione di amore e di dedizione. È la gioia del servo che si trova là dove anche il suo Signore è stato (cf. Gv 12,26). È la gioia di chi partecipa al sentire e al volere di Cristo (cf. Fil 2,5). 
Come intendere la beatitudine dei misericordiosi (Mt 5,7)? È la beatitudine di coloro che credono l’umanità e la dignità dell’uomo sempre, anche quando l’uomo stesso, per sua colpa o per disgrazia, l’ha smarrita o opacizzata. La misericordia crede ostinatamente l’umanità del colpevole e la restaura con il perdono. La misericordia è l’amore incondizionato, che ama ciò che non è amabile o che si è reso spregevole; è memoria e pratica della dignità umana nei confronti di chi l’ha offuscata. Essa crede la dignità umana anche del criminale, del pedofilo, del reietto, dell’uomo ridotto a niente, dell’uomo difforme rispetto alla normale e comunemente accettata forma umana, come il Servo di cui parla Isaia 53, il “senza dignità” per eccellenza. La misericordia rispetta l’uomo nella sua nullità, nella sua miseria estrema, quando non è (più) utile o interessante per le condizioni di dipendenza o deprivazione che lo affliggono. La misericordia rifiuta di ridurre l’uomo alle colpe, pur mostruose, di cui può essersi macchiato. E continua a confessare l’umanità di colui che ha perso ragione e memoria, parola e volontà.
E la beatitudine dei miti (Mt 5,5)? La mitezza è l’arte di addomesticare la propria forza, dimostrando di essere più forti della propria forza. Strumento della mitezza è la parola e suo metodo è il dialogo. Se Gesù è la mitezza fatta persona (“Io sono mite e umile di cuore”: Mt 11,29), lo è in quanto parola fatta carne, parola interposta da Dio tra sé e gli umani non per imporre loro qualcosa, ma per invitarli alla relazione, a entrare nel dialogo con Lui. Paolo VI ha ben espresso il fatto che la mitezza è inerente al dialogo: “Carattere proprio del dialogo è la mitezza: il dialogo non è orgoglioso, non è pungente, non è offensivo…; è pacifico, evita i modi violenti, è paziente e generoso” (Ecclesiam suam 7). È la mitezza che custodisce la parola come fattore di comunicazione e di relazione e la preserva dal rischio di divenire arma. Così la beatitudine dei miti diviene anche giudizio nei confronti di chi non pratica la mitezza e di chi fa della parola uno strumento per sopraffare, per zittire, per imporre, per mistificare, per abusare, per illudere, per ingannare, per adulare.
Ogni beatitudine ha il suo risvolto negativo e implica un giudizio e un appello a conversione nei confronti di chi non è misericordioso, né mite, né povero in spirito, di chi perseguita e calunnia, di chi provoca afflizione, semina guerra e ingiustizia.
LUCIANO MANICARDI
Comunità di Bose
Eucaristia e Parola
Testi per le celebrazioni eucaristiche - Anno A
  © 2010 Vita e Pensiero

Fonte: MonasterodiBose
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